La storia della medicalizzazione dell’intersessualità/DSD è carica di preoccupazioni di natura etica, di dinamiche sociali, nonché di innovazioni tecnologiche. La maggior parte delle sindromi incluse nella categoria Intersex/DSD sono state ‘scoperte’ negli anni ’40-’50, o semplicemente ri-concepite in un modo diverso basandosi sulle nuove tecniche legate alla genetica e all’endocrinologia.
Già nell‘800, però, nel mondo occidentale esplode l’ossessione di definire tutti i corpi “scientificamente” solo in maschile o femminile, eliminando la possibilità (anche giuridica) di essere tra i sessi biologici o sociali, e le persone con variazioni legate al sesso biologico venivano classificate come pseudo-ermafrodite, e delle volte forzate ad assumere nuovi ruoli di genere sociale (spesso per renderle eterosessuali).
Il contemporaneo “modello interventista”, spesso volto a curare problemi sociali, invece che le funzioni fisiologiche, si concretizza nei anni ’50 negli Stati Uniti con l’equipe di John Money. Nello studiare il corpo e il genere, Money sembrava dare la precedenza ai fattori sociali, liberando così il genere da ingombranti meccanismi biologici: questo pensiero ha riscosso molto successo negli anni ‘70.
Per contro, Money considerava la forma dei genitali il fattore sociale più importante nella formazione dell’identità, e così propose interventi chirurgici per modificare i genitali dei bambini, interventi che sono poi diventati la parte principale del protocollo di cura. Il “protocollo Baltimora” di Money prevedeva, e prevede, che la forma dei genitali dei bambini venisse modificata chirurgicamente, in modo da assumere le fattezze “canoniche” del genere a loro assegnato, prima dei tre anni, allo stesso tempo occultando e negando il tutto al paziente (a volte anche ai genitori) per far sì che il bimbo «non ricordasse nulla». Dopo essersi affermato, nel giro di poco tempo, come “gold standard “ (il modello standard/unico di riferimento) internazionale, il protocollo di Money non ricevette forti critiche, finché i primi gruppi di pazienti/attivisti non hanno dato voce ad una diversa opinione.
Diversi attivisti ritengono che la loro autostima sia stata più danneggiata dalla attenzione medica negativa e dalla necessità di cambiar loro il corpo, di quanto lo sarebbe stata dall’aver avuto la possibilità di avere semplicemente un corpo diverso. Altri soffrono la mancanza di autonomia, e/o la segretezza e la vergogna, lo stigma, che girava in famiglia.
Quindi per “modello interventista” intendiamo un modello di cura che si centra sulla modificazione del corpo, sia chirurgica che ormonale (generalmente estetica e danneggiando il più delle volte la funzione fisiologica), in cui alla persona direttamente interessata non è permesso di essere protagonista della scelta.
Col termine DSD sarebbe nato un nuovo modello di cura centrata sul/la paziente (Patient Centered Care), in cui oggetto di cura non è più il corpo diverso, ma un genitore a disagio con la diversità del figlio. Perciò idealmente il primo intervento sarebbe un colloquio con i genitori che li aiuti ad accettare la piccola diversità di loro figlio.